ROMAGNA. NEL SEGNO DELLA TRADIZIONE / 48 / Quando d’inverno si filava la canapa e nascevano storie d’amore fra giovani “filarini”

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Tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento l’Italia era uno dei paesi al vertice nella produzione di canapa. Secondo Coldiretti, a quei tempi nel nostro Paese erano ben 100.000 gli ettari coltivati a canapa, un dato che ci collocava al secondo posto al mondo, dopo l’Unione Sovietica. Una parte notevole (quasi la metà) di tale produzione aveva luogo in Emilia-Romagna.

coltivare la canapa

Ciò che successe poi – un improvviso declino dell’uso della canapa – è da imputarsi a due ragioni principali. La prima riguarda il successo di prodotti nuovi che comparvero sul mercato negli anni della ripresa post-bellica e del boom economico, il nylon e altre fibre sintetiche in modo particolare, oltre a un maggiore utilizzo del cotone e, per gli usi meno nobili (ad esempio per confezionare sacchi), della juta. I nuovi materiali si imposero velocemente, causando un abbandono della canapa. Un altro fattore che fu importante per il declino della produzione di canapa consiste nelle campagne internazionali contro gli stupefacenti che intaccarono la «reputazione» della pianta. Nel 1961 anche l’Italia sottoscrisse la «Convenzione Unica sulle Sostanze Stupefacenti» (aggiornata nel 1971 e nel 1988) che aveva tra gli obiettivi l’eliminazione della canapa entro 25 anni. La parola «fine» alla vecchia storia della coltivazione di canapa in Italia venne scritta nel 1975 con la «Legge Cossiga» (Legge n. 685 del 22 dicembre 1975, «Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope») con cui, di fatto, la canapa quasi sparì dal territorio nazionale, anche a causa di una generalizzazione normativa che non distingueva tra le sue diverse varietà.

coltivare la canapa

Nella storia dell’economia, del lavoro e del paesaggio agrario della Romagna la coltivazione della canapa ha avuto un ruolo importante, e alcuni mìsar (maceri) rimangono ancora qua e là in forma di stagni dai contorni regolari. D’altronde, nella serie di francobolli L’Italia al lavoro emessa dalle Poste Italiane nel 1950, la nostra regione era rappresentata proprio da una contadina che aveva accanto a sé fasci di canapa. Si rappresentò in quell’occasione la scena di un’attività che stava per volgere repentinamente al tramonto: proprio da quel periodo in poi, infatti, e nell’arco di pochi anni, si registrarono, come accennato prima, il rapido declino e poi la scomparsa di una coltura che per alcuni secoli era stata diffusa, importante e caratterizzante. Si pensi, a titolo di curiosità, che in vare parti della Romagna lo spaventapasseri era chiamato dialettalmente e’ spintàc de’ canavér (lo spauracchio del canapaio).

coltivare la canapa

Nel Ravennate questa coltivazione fu, se non introdotta, perlomeno fortemente implementata nel Quattrocento dai Veneziani, che necessitavano di grande quantità di quel tessuto per produrre il cordame e le velature delle loro navi. La produzione conobbe una ulteriore forte crescita nel corso Settecento, quando si segnalò come altamente remunerativa, tanto che ci furono proprietari terrieri che spinsero i coloni a piantarne sempre di più. Nel secolo successivo, mutando il quadro economico, agronomico e mercantile, ai padroni la canapa interessò molto meno, ma i contadini le rimasero fedeli perché essa consentiva l’autoproduzione di tela per ogni uso, cordami, ecc., fondamentali per la famiglia rurale. Anche se alla canapa veniva normalmente riservata una superficie di terreno relativamente modesta, quel tanto che bastava al fabbisogno familiare o poco più, si può dire che dalle nostre parti non ci fosse mezzadro che non la coltivasse, prestandosi a un processo lavorativo né breve né agevole.

La canapa veniva seminata verso la fine di marzo; dopo la raccolta, che avveniva tra la fine di luglio e gli inizi di agosto, veniva fatta essiccare un po’, macerata in grandi buche piene d’acqua (i maceri) per due o tre settimane, poi asciugata, frantumata, gramolata e infine pettinata per dividerla in parti di diversa qualità, che venivano impiegate per ottenere prodotti differenti, dalle corde grezze ai tessuti più fini.

In tutte le case, in autunno inoltrato e inverno, si filava la canapa, armati di fuso e rocca. Con lo strumento chiamato naspa il filo ottenuto era raccolto in matasse, che normalmente venivano bollite per schiarirle, poi, poste sull’arcolaio, erano trasformate in gomitoli o in «cannelli» per l’orditura e per il telaio. Dove c’era un po’ di spazio si montavano i telai per tessere e confezionare corredi da sposa, tovaglie, asciugamani, lenzuola, coperte, eccetera. Nell’incontro di trama e ordito il telaio sviluppava la propria funzione; pedali, pettini, licci e subbi lavoravano sull’ordito per stendere e separare i fili, predisponendoli all’incontro con la trama, che era posata tramite una navetta contenente il cannello di filo. Terminata la tessitura, la tela veniva imbiancata e stesa ad aerarsi, poi, quando era ben asciutta, veniva raccolta in grossi rotoli, i tursèl. Se la produzione eccedeva il fabbisogno familiare, era messa in commercio.

canapa

Riguardo alle tradizioni relative a questa coltivazione, possiamo partire da un’accortezza che i coloni segnalavano: quella di non rimanere troppo a lungo (e soprattutto di non lasciarvi i bambini) dentro i canapai, perché si credeva (probabilmente a ragione) che ciò avrebbe portato a un ottundimento dei sensi e della coscienza, a causa degli effluvi delle piante stesse. Ma era soprattutto il momento della gramolatura (sia della canapa, sia del lino), che avveniva di sera e a volte anche di notte, ad essere caratterizzato, grazie al concorso di molta manodopera giovane di entrambi i sessi, dalla possibilità di corteggiamenti, di usi e aspetti relazionali, non esclusi, alla fine delle operazioni, feste e balli nelle aie. Il «moroso» andava a casa della sua innamorata e l’accompagnava e l’aiutava a portare la gramola sul posto del lavoro, e poi nel lavoro stesso, che si configurava come una «collaborazione di coppia» in qualche modo codificata, nonché esposta a gelosie e ad interventi «terzi» non graditi. Scrive Placucci nel 1818:

«Evvi […] in tempo del gramolare un uso stravagante: se accade, che essendo ivi ambedue gli amanti, passi per via un altro pretendente, o rifiutato, o non corrisposto, tanto la morosa che nol cura, quanto le compagne sue battono velocemente le gramole in modo concertato in atto di deriderlo, che chiamasi la “battuta”. Al sentire la “battuta” lo schernito giovine tira due archibugiate all’aria, facendo, dice egli, le corna, ossia dispetto all’amante prediletto, e questo tira un altro colpa di pistola, dicendo di rompere le corna e concambiare il dispetto; l’altro replica i colpi, a’ quali viene risposto, e così le tante volte durano gran parte della notte, e qualche volta ancora la notte intera» (M. Placucci, Usi, e pregiudizj de’ contadini della Romagna, Forlì 1818, pp. 43-44).

Queste «dispute amorose» a volte potevano condurre a reazioni e conseguenze che sfuggivano al controllo e diventavano qualcosa di più di uno scherzo o di una forma particolare di charivari.

canapa

Un argomento importante, che necessiterebbe di maggiore spazio, è quello relativo all’uso che della canapa si faceva nella farmacopea popolare; ad esempio, la semente di canapa era usata, insieme ad altri ingredienti, per pozioni e bevande, fra cui è testimoniata a San Pancrazio di Russi una «bevanda del buon trapasso» che si somministrava agli agonizzanti per favorire una morte dolce, libera da dolori fisici e psicologici. L’acqua di fondo dei maceri, densa di componenti cannabinoidi, era usata nella stessa località come base in cui mettere in infusione altre sostanze vegetali per ottenere la tariêga, la triaca, il farmaco «buono per tutti i mali» (in E. Silvestroni, E. Baldini, Tradizioni e memorie di Romagna, Ravenna 1990, pp. 166-172).

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